COMUNITA' PROVVISORIA

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LUCIA, SCRITTRICE /calitri /brescia

avellinoexpresstz7.jpg  … la storia è quella di mia madre, una storia vecchia, o meglio antica, dove racconta, tra l’altro, del suo viaggio di nozze fatto da Calitri a Monticchio, un bel viaggio lungo se si considera il fatto che lo fece a piedi. E’ un racconto/intervista tratto dalla raccolta “dentro e fuori”. Avviso i naviganti che è un po’ lungo.  Ciao Lucia
Ai miei nipoti vorrei chiedere perché non sono mai contenti.
Hanno tutto e non sono mai contenti.

Si siede sotto l’arco della porta finestra, un arco profondo cinquanta centimetri.  La sedia tocca lo spigolo di un altro arco che si allunga sul soffitto e si incrocia giusto al centro con altri tre archi che si dipartono dai restanti angoli della stanza, le pareti sono talmente spesse che in ognuna si potrebbe ricavare un armadio a muro senza riuscire a sfondarle come, tra l’altro, è stato già fatto. Archi si incrociano sul soffitto e si incavano nelle pareti sopra il letto, formano nicchie, ingrandiscono lo spazio. Lo sguardo qui dentro non può essere lineare mai, si deve sempre incurvare, piegare, risalire, incrociare.

Oltre il vetro si vedono tetti rossi e strade, serpenti di pietra che si infilano tra case ed archi, il cielo terso tagliato dal volo delle rondini, di fronte la piccola collina del Calvario con la chiesetta proprio sulla cima.
A destra la montagna, campi lisci attraversati da una strada vanno a morire fin sotto al bosco che fa da confine tra questo paese (Calitri) e l’altro (Pescopagano), tra la provincia di Avellino e quella di Potenza.
Da dietro la finestra è solo orizzonte, l’ultimo confine degli occhi.
Liscia la gonna, raddrizza le spalle, con aria solenne attende le domande, trattiene le parole che stanno tutte lì ammassate dietro le labbra, tra la gola, attende che il pulsante del registratore sia schiacciato, che la penna sia sulla carta e poi il fiume di parole si allarga tra gli archi, rotola giù per la strada, oltrepassa il fiume e si arrampica fin sotto al bosco, quel bosco che fa da confine ai suoi occhi.
Punta la mano ad indicare il bosco, e proprio al limitare del bosco quella costruzione che appena si vede, poco più di un grosso bottone bianco, poco meno di una mano aperta, in quella masseria è cresciuta insieme ai suoi fratelli.
“Mio padre era buono, ci raccontava tante storie, a Natale recitava la poesia del Natale, quella di – è arrivato Natale santo e giusto, è arrivata la nascita di Cristo -. Mio padre ci voleva bene. E’ morto nel 1955 l’anno che mi sono sposata”
Si distende il viso in un sorriso, negli occhi brilla la figura del padre
“Un giorno mio padre era a Calitri, guardando verso la nostra campagna si rese conto che io avevo perso il controllo delle mucche, pensando che stavo piangendo prese la giumenta e venne in mio aiuto, ancora prima di arrivare, da lontano mi diceva di non piangere che adesso c’era lui, che ci pensava lui alle mucche. Le mucche avevano preso la mosca ed erano cadute tutte in un fosso vicino al pozzo e io non riuscivo a farle risalire, se non arrivava mio padre, non so cosa avrei fatto. Poi purtroppo si ammalò. Una notte sentì dei rumori, col lume uscì fuori di casa per vedere cosa succedeva, c’erano dei ladri, uno di questi lo picchiò e da quel momento cominciò a tremare e non si riprese più. Mia madre doveva stargli dietro tutto il giorno ed eravamo solo noi figli a lavorare. Eravamo cinque femmine e due maschi, mio fratello più grande ci comandava e lo fece anche dopo che si era sposato.”
Nel cielo terso, sospinte dal vento, le nuvole si spostano veloci dalla montagna verso la collina, verso i suoi occhi velati dal ricordo.
Sospinte dal vento arrivano senza fermarsi e vanno oltre.
“Avevamo due giumente una rossa e una nera, quella nera se la prendevano sempre i “mascìari” che la facevano uscire dalla stalla da una piccola fessura e poi la cavalcano tutta la notte, la mattina poverina era completamente sudata e spesso aveva la criniera tutta intrecciata.
Le terre che coltivavamo non erano le nostre, le avevamo in affitto, le giumente ci servivano per portare il grano al proprietario come pagamento per l’usufrutto dei terreni.
Non c’era l’acqua in casa e andavamo a lavare i panni al torrente, questo d’estate, d’inverno usavamo l’acqua del pozzo che era vicino alla masseria.
Quando eravamo a Calitri andavamo alla fontana a lavare però questo avvenne solo quando avevo già 15 o 16 anni! Poco dopo misero anche la luce, considerato il fatto che sono nata nel 1932 qui la corrente è arrivata soltanto nel 1948 poco più, poco meno”.
Il tono di voce si alza, il corpo perde la sua compostezza, le mani si muovono veloci, e le parole, rotti gli argini, scorrono con impeto senza alcuna possibilità di fermarle e incanalarle da qualche parte in qualche modo.
“Mia madre ci picchiava sempre anche da grandi e nascondeva tutte le cose da mangiare perché noi figli rubavamo tutto. Avevamo tanto formaggio ma a nessuno di noi piaceva perciò mia madre non lo nascondeva. Rubavamo anche le uova. Il pane però non mancava mai.
Mia madre era sempre arrabbiata e urlava sempre. Lei stava in casa e noi figli andavamo a lavorare, la sera quando tornavamo si lamentava perché avevamo le mani “appese” cioè non trasportavano niente, né frasche né legna né altra roba che poteva tornare utile.
Un giorno noi figli decidemmo di tornare a casa con le mani sulla testa, mia madre appena ci vide incominciò a urlare senza guardarci poi quando alla fine ci guardò e vedendoci con le mani sulla testa urlò ancora di più, allora noi in coro “Insomma! Appese non vanno bene e in testa neanche!” solo allora si mise a ridere e ridemmo tutti…”
E ride anche adesso, sobbalza nel petto il sorriso e la scuote, mette le mani in testa e poi le lascia appese, negli occhi il riflesso della madre.
“… Tutte le domeniche mattina ci dovevamo alzare presto per lavare e cucinare e soltanto la sera potevamo uscire un po’.
Una domenica mattina invece di lavare e cucinare io e mia sorella abbiamo deciso di protestare e di ribellarci, ci siamo alzate e ci siamo messe vicino al fuoco, nostra madre si è arrabbiata e picchiava ora l’una ora l’altra, abbiamo resistito per un po’ però alla fine abbiamo dovuto lavare e cucinare lo stesso.
Facevamo a turno a lavare e a andare a Calitri, i maschi mai e neanche mia madre mai!…”
Dopo tanto tempo ancora sente il peso dell’ingiustizia, quel misto di invidia verso la prepotenza dei maschi e della madre.
“Mia madre urlava solo con noi con gli altri no.
Una mattina faceva talmente freddo e la terra che dovevamo zappare era talmente gelata da non riuscire a romperla, io e mia sorella (mia sorella era veramente molto piccola!) abbiamo abbandonato la zappa e ce ne siamo andate nel bosco dove si stava molto più caldo e abbiamo giocato tranquillamente tutto il giorno perché sapevamo che nostra madre non veniva mai a controllarci anche perché se ne stava sempre in casa, ma quando il grano fu maturo mia madre se ne accorse eccome!
Mio fratello grande quando litigava con mia madre se ne andava fuori di casa e dormiva nel bosco o nelle terre, noi sorelle gli portavamo il pane o qualche altra cosa da mangiare. C’è da dire che non mancavano neanche i biscotti. Un anno mia madre ne aveva fatti tanti e li aveva divisi tra noi figli. Ognuno di noi li nascose per mangiarli quando ne aveva voglia e per evitare che qualcun altro li prendesse. Li nascose anche la mia sorellina più piccola ma mio fratello, quello grande li trovò e se li mangiò tutti!”
Questi figli lavoratori e contestatori e questa madre urlante ma capace di ridere, quel padre che contava storie e proteggeva e amava i suoi figli e che non seppe proteggere se stesso, questa famiglia che stava al limitare del bosco è come gli archi di questa casa e del paese tutto, e lo sguardo non può fare altro che alzarsi, curvarsi e scendere, risalire per poi incrociarsi.
E’ come questa casa, scavata nella roccia aggrappata alle altre, protesa verso il cielo, sopra altri tetti, mai sola o solitaria.
“Non mi sono sposata con l’abito bianco perché mio marito era al secondo matrimonio ed era la famiglia dello sposo che doveva comprare l’abito e visto che lo avevano già comprato una volta non vollero comprarlo la seconda.
Per il matrimonio si chiedevano in prestito piatti, posate e tovaglie e si chiamava Maria Saluta che preparava da mangiare. Il matrimonio durava due giorni. Mi sono sposata a Maggio, il 5 maggio 1955, c’era il sole, e un centinaio di persone, abbiamo mangiato i maccheroni le braciole e poi l’agnello con le patate, e i biscotti fatti da una mia cugina che era bravissima a farli. Abbiamo ballato: c’erano i suonatori. Il giorno dopo si faceva lo stesso. Poi bisognava restituire tutto.
Il giorno dopo la festa di matrimonio siamo andati a Monticchio (PZ) con il treno ma per arrivare al Santuario bisognava attraversare il bosco a piedi e ci perdemmo nel bosco. Fortunatamente incontrammo due ragazzi, che ci indicarono la strada. Al ritorno, la sera, avevo molta sete perciò ci fermammo presso una fontana, c’erano diverse persone che riempivano “i cicn ” ad un tratto cominciarono a litigare e li ruppero tutti. C’era un signore che aveva dei muli, mi fece salire sulla groppa così feci tutto il viaggio di ritorno a cavallo fino a Calitri mentre tutti gli altri camminavano a piedi! Eravamo proprio una bella squadra, eravamo in tanti perchè a Monticchio quel giorno era festa e in tanti c’erano andati per divertirsi.
Da sposata ero senza soldi, senza casa, senza niente, un litro d’olio ho dovuto farlo bastare per un anno. Comunque stavamo bene anche se non avevamo niente.”
Ma i figli bisogna crescerli e la pancia riempirla in qualche modo, così suo marito prese la decisione di partire, di andare in Germania, una decisione difficile per entrambi, per lei che aveva due figli da crescere e i campi da arare, per lui che doveva lasciare tutto quello che aveva senza sapere cosa poi avrebbe trovato.
“I soldi per il viaggio ce li prestò mio fratello Donato, glieli abbiamo restituito subito però.
Con i soldi della Germania siamo stati bene.
Ci siamo fatti la casa e abbiamo incominciato a stare bene”
Le parole escono veloci, i ricordi si affollano e si incrociano e si diramano, lo sguardo si allontana dalla finestra e si ritrae dentro la casa, in mezzo alla stanza, tra tutti questi archi.
“Il periodo più bello della mia vita è stato quando lavoravamo tutti e due, io e mio marito che era tornato dalla Germania e avevamo comprato questa casa. Andavo a Salerno a raccogliere i pomodori, era bello si sentiva anche il mare, noi lavoravamo sempre anche sotto l’acqua tanto lì non faceva mai freddo, anche perché non potevamo tornare a casa perché il pullman veniva a prenderci sempre alla stessa ora e poi anche a smettere non c’era un posto dove ripararsi. Era un lavoro pesante però mi piaceva, mi piaceva molto. Ho lavorato anche alla forestale come lavoratore stagionale.”
Scompare il sorriso dalla sua faccia, le rughe si accalcano tutte ai lati della bocca e sulla fronte, e spunta in mezzo ad esse la rabbia e l’impotenza, la delusione e l’amarezza per l’ingiustizia di aver lavorato tutta una vita e non aver preso la pensione che le spettava:
“Sono andata da un ufficio all’altro disperandomi perché tutti i contributi che avevo versato erano spariti, probabilmente sono stati versati a qualcun altro, e quindi ho preso poche lire in più rispetto alla pensione sociale e non sono mai riuscita a farmene una ragione, con tutto quello che ho lavorato! Poi pensavo che ero fatta vecchia e che non avevo preso i soldi che dovevo prendere, non sono riuscita a godermi questa pensione. Un giorno una signora mi ha detto: ma intanto goditi questa piccola pensione che ti danno e non sprecarla a pagare questo e quello per riuscire a risolvere la questione.”
Tira un sospiro, non si capisce se di sollievo o di rassegnazione:
“ adesso mi danno qualcosa di più”
Gira di nuovo la testa verso il vetro, punta gli occhi verso il bosco, resta in silenzio un attimo, come se ascoltasse le voci che giungono da quel confine ultimo dello sguardo e poi la voce s’inerpica tra la gola, caricandosi di preoccupazione e incertezza, ed esce quasi tremula dalle labbra:
“Ai miei nipoti vorrei chiedere perché non sono mai contenti, hanno tutto e non sono mai contenti, noi non avevamo niente ed eravamo sempre contenti”.
Fuori il cielo si divide a spicchi tra i vicoli solitari.
Piantine spuntano tra i muri e sulla strada.
Gatti stesi al sole dormono con le zampe distese.
Il silenzio si alza dal selciato dei vicoli fino al cielo per morire nel cinguettio delle rondini, nel loro battito d’ali, nel fruscio dei venti.

Lucia Marchitto

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http://luciamarchitto.wordpress.com/

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Written by comunitaprovvisoria

5 marzo 2008 a 11:59 PM

Pubblicato su AUTORI

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12 Risposte

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  1. cara lucia
    ho letto con piacere il tuo testo.
    da paesologo studio i paesi come sono adesso, ma sono sempre affascinato dalla vita che vi si svolgeva un tempo.
    i colori, gli odori, i rumori di un tempo
    adesso uno lì può raccogliere solo dai racconti degli altri
    e sono racconti preziosi.

    arminio

    6 marzo 2008 at 10:43 am

  2. cara lucia, che belle le tue storie…e quanto fanno parte di ognuno di noi.
    Sono le storie che tu racconti in modo così…’a ferro e fuoco’ (direbbe Neruda)…che hanno fatto la storia, ma quella vera non quella dei libri.
    Le vite sconosciute di uomini e donne che giorno dopo giorno, tra rinunce e sofferenze, hanno scritto pagine di una storia che nessuno vuole più ricordare.
    Sarebbe bello se l’irpinia e gli irpini di oggi recuperassero quella memoria.
    Ho letto in un tuo precedente intervento che hai fatto un lavoro sul recupero della memoria, sarebbe importante concretizzarlo ed allargarlo.
    L’emigrazione purtroppo è una cosa di cui si parla sempre meno, come se fosse un qualcosa che si vuole rimuovere, la testimonianza di un momento di povertà e arretratezza, trascurando il fatto che grazie alle rimesse degli emigrati nei paesi si continuava a vivere più o meno decentemente, la gente poteva comprare o aggiustare la casa, poteva acquistare un altro pezzo di terra per quando poi se ne ritornava al paese ‘a la vecchiaia’.
    Ho avuto un nonno emigrato ‘ a la merica’ come diceva mia nonna, nel 1929 e mai più tornato (l’estate scorsa sono stata a Philadelphia e New York a cercare qualche sua traccia a Ellis Island…che follia…), quanta sofferenza in mia nonna e in mio padre per quel rifiuto, quante volte ho ascoltato da mia nonna il suo tormento di giovane sposa abbandonata, le mille vicissitudini per sfamare due figli piccoli (” ieva a iurnata a la muntagna a cogli la leuna puru cu acqua e vientu”)…
    Perchè non far rivivere in qualche modo quei ricordi che ancora ci riempiono gli occhi ed il cuore di emozioni?
    Mi fermo qui, non vorrei uscire fuori il tema del thread.
    Spero che l’argomento venga proposto prima o poi.
    Con affetto e stima
    maria rosaria

    maria rosaria

    6 marzo 2008 at 10:47 am

  3. @ Lucia =
    Salve, Lucia, ho letto con attenzione i tuoi racconti e quelli che si sono “aperti” cliccando da qui nell’etichetta commenti recenti “lucia marchitto” e che mi hanno portato in un sito che si chiama “scritture”.
    Grazie per aver messo qui le tue storie.
    Io non le avrei mai trovate perchè non sono un internauta e, non conoscendo l’inglese, non mi azzardo mai ad aprire finestre e link.
    Per quanto rigurada i racconti-mermoria-testimonianze o per dirla con la tua breve introduzione, quando da uno spunto…”t’inventi una storia”, rilevo congruenza realistica nello snodarsi pacato di una narrazione accurata, con descrizioni che trovano la leggerezza della luce all’acquerello. Per quanto riguarda i racconti, tipo “nebbia” bene il fervore narrativo e buona la tenuta del registro del “dialogo interiore” per il congegnato effetto finale.
    I pezzi di vissuto che hai raccolto e narrato compongono quadretti veristi con scorrevole tensione emotiva.
    In tutto ciò c’e tutta la lezione desanctisiana della scrittura: tal contenuto tal forma” e oserei aggiungere […] l’assicurato risultato che se si scrive partendo dalla realtà si vince sempre il bianco timore del foglio di carta […] .G.C.>>.
    Cari saluti e a presto, Gaetano Calabrese con la sua eterna difficoltà di digitare qui e di correggere, perchè abituato a scrivere con la penna =

    gaetano calabrese

    6 marzo 2008 at 10:48 am

  4. @ maria rosaria
    grazie Maria Rosaria, come dicevo ho lavorato molto con la memoria, il mio primo romanzo parla dell’immigrazione verso l’America. A suo tempo feci molte ricerche e trovai un libro bellissimo pieno di fotografie di bastimenti e, di famiglie, di cartoline che gli emigranti inviavano con scritture ingenure di persone che non hanno l’abitudine alla scrittura, spesso con parole dialettali. Un abbraccio Lucia

    @ Gaetano
    grazie, le tue parole mi incoraggiano a proseguire sulla strada della scrittura, mi hai commosso con il tuo commento e ti ringrazio che nonostante tu sia abituato a scrivere con la penna hai scritto per me queste belle parole con la tastiera. Ciao Lucia

    lucia

    6 marzo 2008 at 10:50 am

  5. grazie per questo testo, fresco di bellezza narrativa e di passato

    alfonso

    6 marzo 2008 at 10:58 am

  6. ringrazio tutti voi per i commenti e soprattutto per avermi ospitato in questo luogo che rafforza il mio senso di appartenenza a Calitri e all’Irpinia tutta. Questo luogo virtuale che accorcia le distanze. Un caro saluto a tutti. Lucia

    lucia

    6 marzo 2008 at 4:48 PM

  7. Il tuo racconto mi ha fatto ricordare quelle partenze per il nord al tramonto, alla fine dell’estate, il camioncino polveroso che ci portava alla stazione dove una vecchia littorina marrone ci portava verso calitri rocchetta foggia………… e tutti quei paesaggi visti dal finestrino, l’ofanto nero e impetuoso, i viaggiatori emigranti dalla propria esistenza, il capostazione che ci salutava e infine l’ultimo paese di cui si vedevano le luci Monteverde…………..
    Io, ha volte vedo tutto ciò come in un sogno………………………

    il giardiniere

    6 marzo 2008 at 6:47 PM

  8. tutto è cambiato, quando scendo alla stazione di calitri, quando sono sopra il ponte e guardo sotto e nel letto del fiume vedo alberi cresciuti, quando mi avvicino alla porta chiusa della stazione da dove partii senza voltarmi indietro, gli anni che mi porto sulle spalle mi pesano addosso e ciò che era, ciò che è stato, si tinge del colore della malinconia, e il mio piccolo mondo antico oltre il quale il mio sguardo di bambina e poi di donna immaginava altri mondi, altre vite dove camminare nella luce, il mio piccolo mondo antico è un sogno in cui tante volte sono tornata a camminare per ritrovare lo stesso sguardo, per poter guardare alla vita meravigliandomi ancora come allora e come allora riuscire a immaginare altri mondi e altra vita., a credere che ancora tutto è possibile. Non so chi tu sia Giardiniere ma forse viviamo lo stesso sogno. Ciao Lucia

    lucia

    6 marzo 2008 at 7:31 PM

  9. A Lucia,
    finalmente ti ho letta.

    Rimane negli occhi e nel cuore l’ immagine vivacissima dei ragazzi che tornano a casa con le mani sulla testa e la capacità di tua madre/tua nonna? di ridere insieme a loro.
    E la forte, protettiva presenza del padre, fino al giorno in cui incontrò la ..paura.
    Cia Teresa

    HERA-Klescampania

    7 marzo 2008 at 11:09 PM

  10. Alcuni pezzi della sua scrittura mi hanno riportato alla mia infanzia in toscana…L’architettura degli spessori e delle volte, delle scale e delle scalette come scavate nella pietra…
    è nella coscienza di chi è nato in centro storico. Si sente il muro fatto dalle mani dell’uomo in ogni punto e quello spazio intimo è parte dell’ esperienza vissuta, è dentro di noi, dentro di lei. La dimensione dello spazio psicologico lega organicamente l’uomo
    all’ambiente come prolungamento alla solidità degli affetti…Forse procura dei vincoli in più alla libertà dello spazio dell’architettura moderna…ma la storia dello spazio architettonico è la misura della nostra crescita e dei nostri errori anche di quelli gravi. Comunque mi scuserà se la genuinità del suo scritto io la rilevo da architetto.

    renzo marrucci

    8 marzo 2008 at 3:01 am

  11. Ho seguito anche io il tuo esempio e mi sono fatta una pagina su questo blog ma non so ancora bene come funziona….Passerò il fine settimana a cercare di capire come muovermi tra Tag e submit… Un abbraccio Ania

    ania4ever

    16 Maggio 2008 at 8:31 am

  12. cara Lucia ho letto con molto piacere il tuo racconto del tuo viaggio di nozze.noi abitavamo sopra la casa di ‘Maria Saluta’la mia sorella Angela fu fulminata nella masseria di Tozzoli durante un temporale 2 agosto 1952 aveva 20 anni e era andata a raccogliere le spighe del grano per fare un supplemento per la sua dote.prima a Monticchio si poteva prendere l’acqua direttamente alle varie sorgenti adesso dopo che ci sono spesso delle liti hanno chiuso tutto.io adesso sono in BELGIO con la mia famiglia pero quasi ogni anno andiamo a Calitri e al ritorno pranziamo al fresco a Monticchio. ciao tanti saluti Vincenzo.

    Martiniello Vincenzo

    21 marzo 2009 at 6:05 PM


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