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Maria Luisa Ripa. Un canto d’amore per la vita

NELLA TERRA DI MEZZOdi Paolo Saggese

 

“Muore giovane colui che al cielo è caro”, recita una massima greca, attribuita a Menandro e che piacque al Leopardi. È una massima consolatoria, che non so se dica una verità, ma se la dicesse, sarebbe particolarmente adatta a descrivere la breve esistenza di Maria Luisa Ripa (1966-2003), poetessa di Prata Principato Ultra, ma anche pittrice, scultrice, architetto.

È stata una figura poliedrica d’artista, che tuttavia sembra aver trovato nella poesia e nella pittura i modi espressivi a lei più congeniali, nella poesia in particolare come canto d’amore per la vita, che ben si adatta alla ricorrenza di oggi, il 14 febbraio. Infatti, Maria Luisa Ripa è una poetessa che ha saputo cantare mirabilmente l’amore per la vita, che diviene ancora più forte e lancinante quando si è consapevoli di doverla salutare.

Maria Luisa Ripa aveva iniziato a scrivere giovanissima, nei primissimi anni ’80, mostrando subito qualità non comuni e una poetica matura, che potrei definire dell’impressionismo pittorico. Infatti, utilizzava le parole come i colori e viceversa: la sua poesia, cioè, è poesia d’immagini, in cui frequentissima è la presenza della sineddoche, della metafora, della sinestesia.

E così, per la poetessa, “lunghi sentieri” sono “freschi di vento”, oppure “Dalle pareti colano / pensieri colorati / appesi a chiodi / e mi schiaffeggiano / e mi ricordano / di quanto io possa / eppur sto ferma” (“Giornate di niente”, 13 luglio 1996).

Rivelatrice è anche la poesia “… Bagagli”, risalente addirittura al 6 novembre 1982: qui un laccio diviene “un serpente d’acciaio intorno al collo” (sineddoche), la propria testa “un teschio di pensieri” (ancora sineddoche). “Un cuore d’ideali” e “un calice di vino nascosto nel cervello” (metafore) sono espressione, invece, del mondo confuso di sogni di un’adolescente alla ricerca appassionata della vita e di una libera espressione delle proprie eccezionali potenzialità emotive ed intellettuali.

Questa stessa poetica compare ancora nell’ultimo libro in ordine cronologico (“Parole dal silenzio”, Delta 3 Edizioni), scritto nei mesi immediatamente precedenti la morte, tra il 25 novembre 2002 e il 4 agosto 2003.

In questo diario poetico, spesso le poesie sono a commento di autoritratti, le cui figure sembrano quasi sospese in un’attesa lontana. Qui, Maria Luisa sommessamente annota: “Ma è breve il giorno / tanto quanto è lungo / il sogno della vita …” (“Potrei aspettare”). È questa una poesia bellissima, che non a caso richiama Catullo del carme 5: “Il sole può tramontare e risorgere; / per noi, appena tramonta la nostra breve luce, / dovremo vivere una notte eterna”. La poetessa oppone qui il finito della vita all’infinito dell’universo, come Catullo, e in entrambi c’è la stessa, straordinaria, fede nella vita.

Nelle poesie successive abbiamo un crescendo della fede nella vita, ma anche un crescendo dell’idea del dolore, che fa rima con la parola amore (la più antica e poetica rima): “La lontananza a volte / è una malattia che ti prende / e scende nelle ferite / già esistenti / a provocare altro dolore … // La lontananza a volte / non uccide l’amore / ma se lo inventa …”. In questo percorso fatto di desideri, attese, speranze, illusioni, sogni, dolore, compare un amore concreto, reale, dolce, che dovrebbe essere un farmaco iniziale, momentaneo, ma al contempo grandissimo alla pena del morire. Ecco alcuni versi di “Ho lasciato il mio amore”: “Ho lasciato il mio amore / solo nella notte / abbracciare un cuscino / L’ho lasciato piangere / e pensare / ed io mi perdevo / in un tempo di plastica / dietro parole / di personaggi strani … / Ho creduto / ho inventato / … ho cercato / e per un po’ ho trovato / risposte sbieche / alla mia esistenza …”. Una scena forse come tante: è notte, c’è silenzio ed insieme una disperazione familiare, ci sono i medici e le loro diagnosi. Ma cosa è, o può essere efficace? Efficace è l’amore: “E il mio amore ancora tace / tace e aspetta il mio ritorno … / No! … non vado oltre adesso / adesso cambio rotta / e torno al tuo cuscino / … amore … se amore aspetti”.

Intanto la malattia procede, e con essa la cura dei medici. Sono trascorsi alcuni mesi, che danno ispirazione alla sezione “e son qui”. Adesso, Maria Luisa si sente cambiata, si vede cambiata nell’aspetto. I suoi lunghi capelli “… come foglie d’inverno / in piena estate, si sono persi / ora ingrigiti rinascono / e incorniciano un viso / ingiallito / stanco / segnato …” (“Sono cambiata”). Alcuni di questi bellissimi frammenti hanno un andamento che ricorda Ungaretti, e forse l’insistenza sulla metafora delle foglie, tanto cara al poeta, è mutuata proprio da questo padre della nostra poesia del Novecento. Qui, tuttavia, la poetessa descrive il suo destino attraverso un paradosso: le foglie cadono, ma non d’inverno – come per Omero e Mimnermo -, cadono in piena estate, cioè nella sua piena giovinezza. In modo dunque innaturale si sono persi i capelli, si sta perdendo la vita.

Intanto, la poesia è ancora canto d’amore, persino nei componimenti del 4 agosto – gli ultimi che ha scritto la poetessa -, in cui Maria Luisa è “confusa tra la voglia di vivere / e la voglia di morire / di fatto muoio nella stessa vita / istante dopo istante”.

E ancora esclama: “Allarga le tue braccia / E grida forte verso l’alto / L’amore per la vita”.

Di fronte a questa poesia, che è un inno alla vita, si resta turbati, scossi, da tanta forza d’animo, ma anche dalla forza di queste parole. Si tratta di vera poesia, di poesia autentica, perché non chiede patenti a nessuno, è un canto dell’anima, che attende di ricongiungersi a Dio, che anche nel dolore della dipartita conserva intatto il suo amore per la vita e la sua fede per l’eternità. E anche di questo canto autentico siamo grati a Maria Luisa Ripa.

 

[edito su OTTO PAGINE il 14 febbraio 2008]

Written by alfonson

28 ottobre 2008 a 9:42 am