COMUNITA' PROVVISORIA

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Gesualdo

DI ADELE FLAMMIA

 

Grottaminarda,  uscita dell’autostrada. Pochi chilometri di cemento,nel quale l’Irpinia sembra voler dimenticare la sua povertà  e conquistare l’identità cancellata dal sisma che qui tutto nega.

Solo pochi chilometri,per riprendere le sue campagne,infilando la vecchia strada provinciale in un rosario di paesi calati nel verde,semiprotetti da rigogliose vegetazioni o svettanti su alture conquistate a difesa di moti ed eventi. Si fanno avanti declinando i loro nomi,in un elenco reiterato e mai dismesso.

Il tempo di respirare l’aria ossigenata dai vicini boschi di castagni,mista al pulviscolo febbricitante,ed ecco la sagoma inconfondibile,massiccia e rassicurante, del Castello di Gesualdo.

Costruito in forma quadrangolare,con i quattro torrioni fortificati agli angoli. Geometrico ed elementare, sembra concepito da un gioco di bambini.

Avvicinandosi, la forma austera perde rigore, somigliando sempre più ad una dimora,con tegole,finestre e giardino. L’imponenza si mitiga nell’accogliente abbraccio del parco residuo che occhieggia oltre la cancellata. La costruzione appare  ormai come un’enorme creatura fiera e lacerata,piegata su un fianco,nel tentativo di celare e negare le enormi ferite.

Il Castello è un gigante offeso dai tempi e dagli uomini. Oltraggiato e orgoglioso. Ci si avvicina ad esso con cautela, dissimulando ogni sentimento di pietà, facendo attenzione, perché, sollevandosi potrebbe leggertelo nello sguardo. Ma il gigante è solo ferito, non abbattuto. Te ne accorgi quando varchi  il cancello e ascolti i passi che ti portano al suo interno. Senti suoni e voci che non sono solo echi lontani.

Percepirli è possibile, perché essi sono ancora lì, incrostati nei muri, incuneati nelle fessure, evaporati nei colori residui  dell’intonaco sopravvissuto su qualche muro. E cominci  ad amare quel silenzio, quella luce filtrata dal tempo, così come l’amava il suo Principe. Personaggio malinconico e misterioso come la sua storia. L’amore, la follia, la sconfitta…ingredienti eccellenti per  la narrativa di ogni tempo. Capaci di avvicinare ancora  gli abitanti di oggi che  abitano le case, le chiese, i conventi che egli fece costruire per i loro avi.   

E ci appare ancora vivo, signore assente e atteso, nelle parole dei cittadini del borgo che da lui ha preso il nome. Gesualdo.

Uscendo dalle mura del castello,lasciandoti alle spalle i vuoti procurati  dai secoli,simili ad orbite vuote,tuttavia capaci  ancora di uno sguardo,hai l’impressione di allontanarti da qualcosa di reale e presente. Ti sembra  di congedarti da un luogo dove, magari tra qualche tempo, ritornerai e non sarai meravigliato di scoprire che, nel frattempo vi ha fatto ritorno anche il Principe, affaticato e impolverato, ma intento a rimettere ordine a tutto quel passato. E magari scorgerai, passando al di là  di quel cancello chiuso, oltre la siepe, accanto ad una panchina che vi è stata collocata, due innamorati che,indifferenti al resto,lì lontano dal traffico sottostante, hanno momentaneamente cercato rifugio.

 

 

 

 

                                                                      STANZE

                                                                                

 

                                                                                Occorsero rumori di secoli per creare il silenzio

                                                                                           di queste mirabili stanze

                                                                                                                                ( G. Manganelli )

 

 

Dei pomeriggi trascorsi al castello,Olimpia ricordava le corse oltre la scalinata,dove lei e i fratelli facevano a gara,costretti nei rigidi  abiti inamidati ad, eludere la sorveglianza degli adulti.

Oltre il varco del cortile si apriva luminoso il giardino, le cui siepi di bosso  dalle forme bizzarre e rigorose  offrivano riparo  alla fantasia infantile. Ben presto, però la seduzione del gioco cedeva davanti  all’attrattiva dell’avventura. Le suggestioni dei cespugli,la loro umida intimità sbiadiva quando Ettore,il fratello più grande  dava  il cenno di libera fuga verso il luogo a loro interdetto. Nessuno degli uomini intenti ai lavori nei granai e nelle cantine badava a loro, la via verso l’entrata scura,a  ridosso della pietra viva del muro sottostante la dimora, era libera.

Olimpia prendeva per mano la sorellina e insieme seguivano Ettore,guida e condottiero verso quella trasgressione avventurosa che li faceva fremere e  trattenere il fiato ad ogni fruscio.

Oltre la pesante porta di legno consunto, chiusa da vari chiavistelli resi inefficaci dal tempo,si apriva uno spazio buio e umido all’olfatto, dove i profili degli oggetti abbandonati all’interno  apparivano distorti agli occhi ancora abbagliati dal sole. Avanzavano percependo il  fremito  trattenuto ad ogni passo,insieme al respiro che diveniva sempre più affannoso, attenti al minimo scricchiolio che potesse tradirli. Procedevano con cautela, liberando ad ogni passo una parte del lastricato coperto dalle foglie soffiate dal vento e dalla paglia dell’anno precedente.

Tutte le volte era lo stesso rituale,che in un gioco ripetuto, rinnovava e annullava il precedente.

Si facevano strada tra vecchi utensili arrugginiti e botti enormi,percependo sempre lo stesso odore  misto di vino e legno ammuffito.

“Ecco ci siamo quasi!” Gridava a volte Ettore. “Fate attenzione a non coprirla.” E intanto cercava di guidare e nel contempo di tenere qualche passo più indietro le sorelle. Qualche volte Olimpia  tratteneva a stento un gridolino di spavento, quando avventatamente urtava una vanga  abbandonata oppure un vecchio rastrello le impigliava i lunghi capelli. “Stupida! Cammina più lontana dal muro.” La rimproverava suo fratello. 

Quando il punto appariva loro  opportuno,cominciavano a cercare chini,spostando la polvere e i detriti di un anno.

“Eccola!” Gridava alla fine qualcuno,felice di non dover rimandare la vittoria all’estate dell’anno successivo. Gli altri vi si accostavano con un brivido di paura e piacere che compensava la loro  ignara, momentanea sconfitta. Colpita da un ultimo raggio di sole ancora utile, ecco apparire la pietra, liscia e stregata.

Un moto di spavento ,allora,li prendeva. Si ritraevano addossandosi a vicenda,cercando conforto tra le braccia fraterne. Il contatto degli abiti spiegazzati offriva loro sollievo, solo allora potevano  guardarla.

 Sotto i loro occhi,una pietra striata di rosso sembrava troneggiare sulle altre. A quel punto, potevano finalmente scappare,allontanarsi al più presto, calpestando il selciato del cortile,la ghiaia rivelatrice del viale, evitando le radici del glicine secolare, che nodose fuoriuscivano dalla terra.

Correvano tenendosi ancora per mano Olimpia ed Elena, supplicando il fratello di aspettarle.

Poi,svelti oltre il portale di pietra, ,su per le scale, fino al pianerottolo,dove in fila si aprivano le porte, fino al salottino rosso dove, in uno specchio chiuso in una cornice di velluto, i ragazzi potevano riprendere fiato e ricomporsi, asciugando la fronte, lisciando la seta sgualcita,ordinando le ciocche sfuggite ai nastri. Dopo uno sguardo  reciproco,  proseguivano spingendo la porta laccata, oltre la quale giungevano le voci della nonna  in compagnia della madre di Ettore,Olimpia ed Elena e delle zie riunite in quella giornata.

I ragazzi esitavano un attimo, poi invitati a sedersi, prendevano posto sulle poltrone dall’odore polveroso, dove potevano finalmente assaggiare i dolci di mandorla e zucchero.

“Perchè siete così rossi in viso? Vi ho detto di non correre per le scale”. Diceva la madre rivolta  ad Ettore. “Non le avrai mica portate di sotto, vero?”

Ettore negava. Le sorelle tenevano gli occhi fissi al pavimento, prese da un inconsueto interesse per il mosaico sotto le loro scarpe impolverate. Lo sguardo passava in rassegna quelle tessere colorate, che davano vita alla  sagoma elegante di un leopardo, esaltata dal raggio di sole pomeridiano.

Veniva allora chiamata Ersilia, la vecchia governante e interrogata dalla nonna: “Di sotto le cantine sono rimaste aperte?”

“No, signora, Olindo ha riposto gli attrezzi e ha dato le mandate. Ho sentito io stessa il cigolio!”  Mentiva la donna  nel suo dialetto.   

Solo allora ,sollevati, i piccoli riuscivano a placare l’arsura nei grandi bicchieri di acqua e amarena che venivano serviti loro. Olimpia pensava confortata che nessuno si era accorto di nulla, guardava per tranquillizzarsi ancora una volta la piccola Elena che reggeva tra le mani il bicchiere,oscillando le gambe che dalla poltrona non riuscivano a toccare terra.

Dopo  un po’, solitamente con un pretesto, veniva richiamata Ersilia alla quale venivano affidati i tre fratelli, in modo da lasciare correre indisturbati  i discorsi, senza nessuna omissione o censura.

L’anziana donna li prendeva in consegna con gioia. Appena dietro la porta del salotto i bambini le si stringevano contro felici. Olimpia affondava il viso contro il suo seno, sentendo il contatto della stoffa ruvida e l’ odore di fumo e cucina e pensando che quella fosse la stessa sensazione provata anni prima da sua madre.  

 “Ersilia,ti prego, portaci con te di sotto in cucina”. La donna rideva stringendoseli tutti e tre con lo stesso affetto riservato alla loro mamma.  Dopo un po’ se li trascinava giù per le scale, fino alla grande cucina dalle pareti affumicate, coperte di pentole e tegami di rame. Davanti al fuoco preparato per la cena Olindo, seduto su una vecchia sedia impagliata, soffiava sulla fiamma con un  mantice.

“Vi prego, raccontateci della pietra insanguinata e della principessa.” Supplicavano in coro i tre.

L’anziana donna faceva cenno di tacere, poi si assicurava che fuori della porta non ci fosse nessuno, chiudeva l’uscio e, aspettando che tutto tornasse silenzioso, faceva sedere i ragazzi davanti alle maioliche bianche e nere della cucina. Guardando i loro occhi fissi su di lei, cominciava.                

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho appreso la storia della pietra da uno dei protagonisti di questo racconto. Attraverso la sua narrazione, ho percepito i colori, le atmosfere, le luci e persino i rumori che dall’interno del castello scandivano il tempo. Ho visto attraverso i suoi occhi il belvedere dal quale si domina tutta la vallata, dove molteplici sfumature di verde si susseguono. È lì che ho immaginato posarsi lo sguardo malinconico e inquieto del  Principe. Da quel luogo ha avuto origine il mio esile e tenace legame con Gesualdo.

Personaggio controverso e affascinante. Colto e raffinato compositore di madrigali,per i quali si avvalse anche dei versi che  Torquato Tasso compose per lui.

Alchimista e studioso curioso di  molteplici  fenomeni che anteponeva ai compiti che il suo stesso  ruolo imponeva. Cosa del tutto malgiudicata  che gli favorì il sospetto presso i contemporanei e  legò la sua fama prevalentemente  al sanguinoso episodio dell’assassinio, da lui ordito, di sua moglie Maria d’ Avalos e del giovane amante  Fabrizio Carafa. L’ appartenenza  dei personaggi ai ranghi più alti della nobiltà partenopea dell’ epoca ha arricchito  la vicenda di particolari fantasiosi, rendendo meno leggibile e più controversa la personalità del principe, e   svelando, forse,da parte delle famiglie una vocazione all’oblio dei fatti.

Personalmente ho amato questo Principe fin dall’infanzia,quando invocando la ripetizione consolatoria della narrazione apprendevo i particolari della sua tragica storia.

La mia intimità era favorita e influenzata da una certa confidenza, fatta di luoghi e atmosfere condivise,rafforzata dal fatto che gli episodi mi venivano narrati da chi,per legami familiari, aveva condiviso la storica dimora di Gesualdo.

Il racconto di un gioco infantile,il ricordo di un incontro perdevano i confini reali per sfumare  nell’atmosfera della favola.

Anni dopo,ricordo il mio stupore nel leggere il nome del Principe in una enciclopedia che citava, più o meno così:”Carlo Gesualdo, principe di Venosa(1560 ca- 8 settembre 1613) Compositore e mecenate. Scrisse sei libri di madrigali a cinque voci che rappresentano un’esperienza linguistica personalissima e atipica…”

Ho iniziato allora a sovrapporre alla freddezza di quella descrizione la conoscenza derivata dai ricordi dei miei racconti,fino a creare un mio personalissimo legame. Di questo personaggio ho amato soprattutto la connotazione umana della sua volontaria,malinconica solitudine.

La tradizione popolare ha parlato di una misteriosa pietra conservata all’interno del castello,si diceva, macchiata del sangue della  principessa o,come qualcuno sosteneva, dello sfortunato figlio.

Le notizie storiche sembrano, tuttavia, smentire tutto ciò. Maria d’ Avalos risulta essere stata uccisa  nella residenza di Napoli e non esiste nessun documento certo della nascita del figlio. Niente oltre i racconti popolari.

Quando, dopo diversi anni ho rivisitato il castello, ho cercato indizi su questa pietra,che per una specie di sortilegio,si diceva,non potesse essere ripulita in alcun modo,nonostante i ripetuti tentativi. La persona che mi ha fatto da guida  ne ignorava persino il racconto. Come pure mancava ogni traccia del salotto con la figura del leopardo,che così chiaramente mi era stata  descritta in passato. Molte sono state,  del resto, le ingiurie inflitte alla residenza, oltre a quella dolorosa degli adattamenti da parte degli abitanti che vi si sono avvicendati e ai pesanti danni dell’ultimo terremoto.

Tuttavia uscendo da quel luogo,ho ritrovato in me intatte le sensazioni dell’ infanzia, unite alla percezione di un’ ultima superstite testimonianza della pietra macchiata di sangue. Ma come avviene,quasi sempre,quando il tempo si lega alle umane atmosfere, ci è dato più supporre che  conoscere.

Quando il cancello si è richiuso alle mie spalle, ho sentito che all’interno le sue ombre, i suoi silenzi,non avrebbero forse più avuto testimoni.

Ettore, Olimpia, Elena se ne erano allontanati da tempo.

Un’ iscrizione voluta da Carlo Gesualdo lungo le mura del castello recitava: “Haec domus manebit usque testudo totum circumdabit orbem”.

Mi piacerebbe pensare, perchè tutto permanga, che quella tartaruga abbia ancora molto cammino da percorrere.

Written by Arminio

16 novembre 2008 a 8:47 PM

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