COMUNITA' PROVVISORIA

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LA TORMENTA

GIUSEPPE ANTOLINO ALLA SUA PRIMA PROVA DI SCRITTORE

di Donato Salzarulo

 

Una lingua è il luogo da cui si vede il mondo e in cui

si tracciano i confini del nostro pensare e sentire.

V. Ferreira

 

Giuseppe Antolino è stato mio compagno di scuola. Nella foto-ricordo di quinta elementare, quella sul belvedere di Piazza Convento, lui è in seconda fila come me; in piedi sul gradino, appoggia il braccio destro sulle mie spalle, intorno al collo.

Dopo la terza media, ci siamo persi di vista. Lui andò a studiare al liceo classico di Sant’Angelo dei Lombardi, io feci per quattro anni avanti e indietro col pullman all’istituto magistrale “Francesco De Sanctis” di Lacedonia.

Appena diplomato, migrai: per un anno a Torino (1967-68), poi qui, a Cologno Monzese,  in questo hinterland milanese. D’estate, al paese sono sempre tornato. In certi periodi, anche tre o quattro volte in un anno, ma di Giuseppe nessuna traccia. Meglio, sapevo che non si era allontanato molto, però non mi era più capitato d’incontrarlo. Succede. Ho tre o quattro compagni di scuola non più rivisti.

Ed ecco, verso fine Novembre una mattina, aprire la posta elettronica e trovarmi, toh!, l’indirizzo di Giuseppe Antolino. Leggo con emozione e grande curiosità. Non sono due righe sbrigative. E’ una lettera, una bella pagina. Dice di aver letto su un blog il mio scritto sul nostro “signor maestro” e mi ricorda l’episodio (indimenticabile) di quando gli lanciò contro, in prima elementare, lo scarponcino destro. Un po’ il nostro maestro se l’era cercata. Per la terza volta, gli aveva negato l’autorizzazione ad andare al gabinetto. E il mio compagno evidentemente non aveva nessuna voglia di farsela addosso.

A conclusione della lettera, Giuseppe mi invita a cliccare sul link www. giuseppeantolino.ilfilo.eu

Lo faccio e apprendo che ha pubblicato un libro intitolato «La tormenta».  Anche il mio compagno scrive, mi dico. Di primo acchito, il titolo non mi convince. Mi fa venire in mente i fotoromanzi d’amore. E la copertina appare un po’ dissonante. Infatti, autore, titolo ed editore, racchiusi in un rettangolino di taglio basso a destra, si sovrappongono ad un paesaggio alpino, limpido e sereno. In primo piano, al centro, un sentiero brecciato biancastro che si perde verso l’orizzonte roccioso. Il sereno dopo la tormenta? O in ogni paesaggio sereno c’è sempre un rettangolino di tormenta?…Chissà.

Cerco lumi sotto, nella presentazione: “dialogo surreale”, “storia di una famiglia dell’Irpinia”, “questioni, interrogativi, perplessità su differenti ambiti, dalla Chiesa alla Politica”. Interessante. Davvero interessante. E’ sicuramente da leggere. “Una discussione che, nella sua leggerezza, appare senza senso e senza appigli…” Oh, Dio! Una roba senza senso?! Ma chi l’ha scritta questa presentazione? Perché un lettore dovrebbe imbarcarsi in simile avventura?…

Non rispondo subito alla mail. Un po’ perché ho mille impieghi, un po’ perché gli amarcord aumentano con l’età e desidero tenerli  a freno.

Qualche giorno dopo il compagno mi telefona. Ha cliccato su Google il mio nome e cognome e si è trovato di fronte, mi dice, un vero e proprio casellario giudiziale. Sa tutto di me o quasi. Ha visto anche le mie foto, ha visto come il mio corpo si è trasformato in cinquant’anni. Se mi incontrasse, mi riconoscerebbe.

Qualche giorno dopo ricevo in dono le oltre quattrocento pagine de La tormenta.

 

La scrittura del mio compagno è viva e vitale così com’era lui negli anni di scuola. Leggendo le parole, le combinazioni sintagmatiche, l’organizzazione sintattica, i periodi, il ritmo dell’enunciazione, l’uso degli intercalari, la punteggiatura, vedo lui. Lo vedo meglio che in una foto. Non so se sia soltanto una proiezione, ma ho l’impressione, concentrandomi sulle pagine, di cogliere i suoi riflessi più intimi, quelli che mi sembrava di conoscere quando giocavamo, sedevamo sui banchi, seguivamo le risposte dell’uno o dell’altro alle domande del maestro, ci guardavamo negli occhi. La scrittura è più del vetro smerigliato; della figura non rimanda solo la forma, i contorni, la massa. Dà accesso al corpo, al suo DNA sociale, ai suoi gesti interni-esterni, alle sue relazioni culturali, alle idee, vene e reticoli della sua storia…

E’ riconoscimento. Sensazione immediata, percezione che mi accompagna sin dall’incipit del capitolo primo, letto sul sito della casa editrice:

«Il tempo, già dal mattino, s’era messo di brutto.
Prima un ventaccio gelido…
Poi le nubi che sospinte dalla bora rabbrividivano le strade di nevischio. Infine, sul tardi, la tormenta.
Tempo da lupi…
“Buono per starsene in pantofole a scottare i marroni nel camino…” così mi aveva consigliato la consorte, sbirciando tra le imposte socchiuse del tinello, incuriosita da uno strano pennacchio che accresceva a vista d’occhio i suoi ricami, giusto sotto il cornicione. “…Stasera danno un bel film…” aggiunse, “…
il Fuggitivo… con Harrison Ford e Tommy Lee Jones… perché non vedercelo insieme?… Ti ho fatto pure lo stufato…”.

L’invito, purtroppo, si perse lungo il corridoio, mentre, preso da altri pensieri, sgattaiolavo fuori casa come un ladro per raggiungere la sede. Un brutto vizio, il mio.
Non ascolto mai la gente.
Chi mi vuol bene, poi, a volte ci rimette più di tutti.
Specie mia moglie, che non sa più da quale verso prendermi e che tipo di stufato prepararmi.
Brutta cosa avere un volontario in casa!
Ma, alle nove di sera, quando c’è in giro un’ambulanza con un ferito grave, sono altre le castagne da togliere dal fuoco.
E il pensiero si sofferma sulle gomme termiche rimaste a poltrire nel garage, sulle catene con le maglie rotte, sperando che almeno l’autista non si lasci prendere dal panico e non decida di incatenare Pippo al suo ritorno. Chi? Mario? Figuriamoci!, lui ha il pallino della neve.
Sarebbe un’offesa solo a pensarlo.»

 

Da un lato la bellezza di quelle “nubi che sospinte dalla bora rabbrividivano le strade di nevischio”, dall’altro quei sintagmi poco convincenti come “messo di brutto”,  “scottare i marroni” o più avanti, quando ho letto l’intero capitolo, espressioni che si vorrebbero scherzose tipo:  “quello che mi aveva da poco superato i trenta” (riferito all’età di Mario) oppure “ogni volta che tenta di mollarmi questa storia”. Mollarmi questa storia?!…”Se lo mando in Siberia mi va e mi ritorna”, “per come la sta menando adesso” (menare la neve?!…), ecc. ecc. E poi, per certi versi, è disturbante l’inflazione di punti sospensivi, l’uso continuo di  “logicamente”, il ricorso ad anafore (“già, già”, “ma pensa, pensa”…).

Insomma la pagina fresca, animata, scorrevole, intelligente, qua e là s’intorbidisce come quando si lancia un sasso nell’acqua limpida di una sorgente. Da qui l’impressione di un racconto vivo, ma “sporco”. Non un guazzabuglio, come sosteneva il padre, lettore severo dei primi appunti del figlio, né una giungla di idee affastellate, ma un intreccio fluente, orchestrato e, tuttavia, non perfettamente curato; una prosa vivace, a tratti umorale, scherzosa, ironica, parlata, attenta ai dettagli, ma un po’ grezza e naïf. Un impasto e una narrazione non lineari, intricati, a zig-zag  che, però, non respingono il lettore, che lo attraggono.

 

Nel paese adottivo (Sant’Angelo dei Lombardi), in una sera di tormenta, Giuseppe, protagonista e narratore delle vicende, rinuncia allo stufato, amorevolmente preparato dalla consorte e al suo invito a vedere insieme un bel film alla tv, per recarsi nella sede fredda della Confraternita della Misericordia, associazione di volontariato di cui è Presidente.

E’ preoccupato e pensieroso perché Mario, responsabile degli automezzi, è uscito con l’autoambulanza per prestare soccorso ad un ferito grave e, alle nove di sera, non è ancora tornato. Ritornerà alle due. Mentre fuori nevica a non finire, Giuseppe lascia correre il pensiero sulle abilità di guida del suo amico Mario, sull’ultimo salvataggio spericolato realizzato insieme sull’Ofantina (col protagonista che presta la cintura all’amico e, rimasto senza, costretto a ricorrerre allo spago per tener su i pantaloni).

Verso le undici piomba nella sede un tizio intravisto durante il caffè mattutino al bar Prestige. Si chiama Filippo. Il protagonista crede che sia lì perché voglia fare il volontario e si prodiga in una lunga ed estenuante chiacchierata; per altro inefficace, perché il tizio, dopo “quel fugace avvistamento”, non si fa più vedere.

Forse perché ogni fallimento scotta o perché, sia pure a volte inevitabili, bisogna imparare dagli stessi fallimenti, il protagonista narratore individua la genesi del libro nella sua volontà di scrivere la cronaca di quel “primo ed unico incontro” con Filippo. Dubitando, però, che un simile movente possa suscitare interesse oltre la cerchia degli amici, mette le mani avanti e comincia a difendersi, innanzi tutto, dai giudizi severi del padre. In Africa, nel gennaio del 1941, lui si arrese agli inglesi, ora vorrebbe che il figlio innalzasse bandiera bianca e buttasse il fascicolo di appunti nel bidone dell’immondizia o lo desse alle fiamme.

Ma nulla da fare. Giuseppe è cosciente di non aver “setacciato il grano” prima (ma, giustificandosi, dice di non conoscere bene il mestiere di mugnaio-scrittore) e sa di aver digerito qualche “volo pindarico di troppo”. Al lettore chiede il piacere di digerirlo anche lui.

 

Il libro, come si evince da questa sintesi del primo capitolo, ha per protagonista l’autore, che è anche voce narrante. L’intreccio, condotto quasi sempre in prima persona – una prima persona capace di sdoppiarsi e parlare di se stesso come di Giuseppe o di Pippo; di mettersi, persino troppo, nella testa degli altri personaggi, di tramare dialoghi diretti con loro ma, spesso, di ruminare sulle loro parole e azioni – , si sviluppa lungo tre direttrici:

a)     Il rapporto dell’autore con il libro che ha scritto o sta scrivendo. Questo tema, presente sin da quella che chiama vezzosamente “ouverture”, si configura come una sorta di riflessione metatestuale. L’autore indica non soltanto  la genesi del libro (come si è detto: scrivere la cronaca del primo, unico e lungo incontro-chiacchierata avuto con Filippo),  ma lo scopo, l’intento (tracciare un cammino di crescita interiore “dalla miseria alla Misericordia”, prendendo spunto dalle vicende della propria esperienza personale). L’atteggiamento che osserva nei confronti dei contenuti presentati è improntato al “bagno di umiltà”; apparentemente incerto, teso spesso a diminuire il lavoro che sta svolgendo, il più delle volte liquidandolo (o facendoselo liquidare) con giudizi svalutativi (tipo: scarabocchi, guazzabuglio, roba da buttare nel cestino dell’immondizia o da consegnare alle fiamme purificatrici, strafalcioni, ecc. ). Ma, si sa, in ogni umile si annida un orgoglioso, un fiero combattente, un ambizioso amante della posizione eretta.

b)     Il ritratto di sé (non ascolto mai la gente, faccio orecchie da mercante, metto il muso, ecc.), delle sue scelte, del suo modo di pensare e della sua filosofia insieme al racconto di episodi e avvenimenti importanti della sua storia di vita: il rapporto-confronto col padre amato, il perché porta il doppio nome di Giuseppe Antonio, la visita di leva, la sua formazione, l’influenza di padre Lucio Maria De Marino a cui dedica il libro (peccato che lo si scopre solo a pag. 413!),  ecc.

c)      Il dialogo diretto con Filippo, “interlocutore troppo morbido per essere credibile”, come sostiene, a ragione, nell’ultimo capitolo Antonio, il segretario scolastico, amico dell’autore. Infatti, sin dalle presentazioni, il protagonista narratore ha di fronte un uomo sulla cinquantina, mezzo ubriaco, “proletario della più bassa schiatta” che si lamenta per la sua pancia piuttosto grande  e per il nome che non gli piace  (“è tutta un’alzata di mantice”) e che perciò taglia in Lippo.

Sarà proprio questo conflitto intimo a fungere da motore dell’intreccio, dal momento che l’autore, assumendolo, si mette, a sua volta, a raccontare il perché e il percome del suo “Giuseppe virgola Antonio”. Un racconto intessuto di flash-back e che, per diversi capitoli, riduce Filippo al ruolo di silenzioso ascoltatore. Anche quando il dialogo è diretto, come ad esempio nel capitolo secondo, il protagonista narratore fa sempre la parte del leone. Apparentemente si pone allo stesso livello del suo interlocutore; in realtà, è lui che rompe il ghiaccio, che tiene il filo della conversazione e cerca la battuta, sfrutta i doppi sensi, tira in ballo e sa chi sono Filippo di Borbone e Filippo il Bello, conosce la corretta posizione geografica di Navarra e Andalusia, sa che l’eritropoietina “fa andare a tutta birra” (caso lampante di combinazione di registri stilistici); e come lui è sensibile e capace di leggere i pensieri fra parentesi, ma, a differenza di lui, non è cotto nelle sue sciocchezze, usa il cervello e non si ostina a ragionare coi piedi. E, soprattutto, sa come affrontare le inquietudini esistenziali: non piangersi addosso, gettare il cuore oltre l’ostacolo, rimbalzare come quei pazzi che si lanciano dai viadotti legati ad un elastico e, in mancanza d’altro, “una chitarra e un paio di scarpe nuove” .  E’ la filosofia pratica, a livello di Filippo si può dire?, dell’autore.

Per il quale deve essere stato davvero un duro colpo constatare, dopo il lungo e faticoso tentativo di proselitismo, di stringere tra le mani un pugno di mosche. Filippo, a tratti contraddicendolo, a tratti limitandosi ad ascoltarlo, rifiuta, comunque, la proposta di “farsi prima famiglia e poi chiesa all’interno di una Confraternita” (pag. 17).

Vien da ridere: per gli ubriachi in vino veritas; e per quelli che ubriachi non sono e vorrebbero persaduere delle loro verità gli ubriachi o i semi-ubriachi?…La situazione è indubbiamente comica e comica è la storia dell’origine del nome dell’autore; comico il dialogo col maresciallo alla visita di leva, il matrimonio di Luigia Canestrini con Angelo Maria Michele Francesco Luigi Domenico Carmine Antonio Scatorza, ecc. Otto nomi! Leopardi ne aveva solo sei: Giacomo Taldegardo Francesco Salesio Saverio Pietro…

Direi che una vena comica percorre tutto il libro. Nume tutelare: Totò, il principe Antonio De Curtis, espressamente citato, ad esempio, alla fine del capitolo VI, a pag. 60. Con tono serio questa volta: «L’umanità è divisa in due categorie:Uomini e caporali». Allora, sempre con serietà: d’accordo, principe. Questo è un modo di dividerla. Ve ne sono tanti altri: tra chi sa e chi non sa; tra chi possiede e non possiede; tra chi ha fame e chi ha la pancia piena…

 

Non è il caso di seguire in modo più analitico lo svolgimento dell’intreccio; così come non credo sia opportuno sostituirmi a Filippo e discutere in modo più ravvicinato e stringente le tesi di fondo di Giuseppe sul suo percorso di conversione al cattolicesimo, sull’amore-carità, sulla Misericordia, ecc. Una recensione non è un libro e la fede, più o meno luminosa o opaca, di una persona può essere messa alla prova soltanto da chi la professa. Mi interessa, invece, cogliere l’effetto più importante che questo libro ha avuto su di me.

Con un compagno di scuola il confronto è inevitabile. La curiosità altrettanto naturale. Si vorrebbe comprendere la specie d’albero, il tronco, la corteccia, l’intrico di rami, il fogliame che ognuno di noi è diventato. Le radici sono lì, comuni, a Bisaccia, in quel paese irpino che ambedue ancora amiamo. Ma poi?…Siccome non siamo alberi, poi ci siamo mossi. Abbiamo vissuto in altri luoghi, incontrato altre persone, incrociato altri sguardi, vissuto altre storie. Non mi meraviglio, in fondo, se si scoprisse che i due compagni di scuola siano diventati dei perfetti estranei. E proprio perché stranieri l’uno all’altro, possono non solo riconoscersi nel segmento di storia comune vissuta, ma tornare a incuriosirsi, a confrontarsi, a rivelarsi,

Ebbene ho scoperto che Giuseppe, in quegli anni e in quegli ambienti sociali in cui la stragrande maggioranza dei padri aveva coi figli un rapporto autoritario, spesso fascista, violento, improntato al “credere-obbedire-combattere”, col suo aveva una relazione più tranquilla e forse più positiva della mia.

Come lui probabilmente scavezzacolo e scapestrato, a dieci anni avevo molta paura di mio padre che me le dava non sempre di santa ragione. In una pagina del suo libro, invece, leggo:

«E non ho mai avuto un solo schiaffo da papà, a parte qualche inevitabile tiratina di orecchie. Ma si sa quelle non devono mai mancare.

Mamma no.

Mamma me le ha sempre suonate di santa ragione.

***

“Basta, basta, brutta cosa la guerra!…mi diceva nel darmi il buonanotte. “Ma è ancora più brutta…” e intanto mi stampava un bacio in fronte “…quando si affronta il nemico impreparati […]». (pag. 39)

A parte quel buonanotte, con l’articolo al maschile per conservare probabilmente l’espressione dialettale (“Lu santanotte”), deduco che il mio compagno abbia amato suo padre molto più della madre; al contrario di me.

Una bella differenza che, in quegli anni di scuola, non avevo notato. Amore vuol dire anche attenzione, cura. E, quando a partire dal terzo capitolo, la voce narrante dell’autore si avventura in quel lungo flash-back che riporta la storia indietro agli anni della seconda guerra mondiale, sono rimasto affascinato e un po’ sconcertato dalla precisione e meticolosità con cui il mio compagno riusciva a ricostruire il percorso del padre e del suo amico Pietro (“lo scultore”) in Africa: stavano già in Libia dal ’38 come soldati di leva (pag. 38); parteciparono alla ritirata di Sidi El Barrani e furono fatti prigionieri dagli inglesi, agli ordini del generale Wavell,  sotto i costoni di Derna nel gennaio del 1941; scontarono cinque lunghi anni di prigionia a Zonderwater; il 7 agosto 1946, giorno di San Gaetano da Thiene, giocarono una partita nell’entroterra di Durban; una settimana dopo furono imbarcati per il rimpatrio sul Sea Indipendent, un piroscafo prossimo al disarmo, ecc. ecc.

I racconti di guerra di suo padre avranno certamente procurato tutta una serie di incubi notturni al figlio (pag. 39) e una particolare fobia per i lampi superata dopo i cinquant’anni (pag. 41); ma,  vivaddio!, il mio compagno era in grado di ricostruire un pezzo di storia del suo genitore che il sottoscritto ignorava quasi completamente.

Meglio, so che mio padre è stato nove anni in Africa orientale; molte volte ho sentito nominare posti come Gibuti, Giggica, Harar, Dire Daua, Addis Abeba, ecc.; so che fu fatto prigioniero dagli inglesi e che, durante la prigionia, imparò il mestiere d’infermiere (tant’è che in famiglia e nel vicinato, in caso di bisogno, era sempre lui a bollire nell’apposito pentolino la siringa e ad infilare l’ago nelle natiche); so pure che per mettere nello stomaco qualcosa di più sostanzioso della brodaglia si allenò come pugile (schiacciava sempre l’indice sul naso per mostrare che non aveva più l’osso) e partecipò a diciannove incontri. Non ricordo quanti ne vinse; ricordo che quello sport gli era entrato nel sangue e, quando trasmettevano qualche incontro alla televisione, lo guardava entusiasta. Uppercut, diretto, gancio, sono parole ascoltate dalla sua bocca. So – cosa più scabrosa e su cui si preferiva tacere – che in uno dei villaggi o paese o città di quel vasto continente aveva conosciuto una donna (Jetta Taffarà?…Boh!…) che gli aveva dato un figlio di cui non so il nome. So soltanto che non sono il suo primogenito. Quando tutto ciò sia successo, dove, come…Buio.

Mio padre era nato nel febbraio del 1914. La guerra di conquista dell’Etiopia si è svolta nel 1935-36.  Nell’ottobre del ’35, quando iniziò, sicuramente era soldato di leva. Ma era già al fronte? E su quale fronte? Quello Nord o quello Sud?…Ho una sua bella foto del 37. Nel retro, con grafia scattante ma incerta, c’è la sua firma, la data e il nome di un luogo: Aiscia, 5.9. 37…

Insomma, leggendo il libro del mio compagno, ho scoperto di conoscere pochissimo quel periodo di vita di mio padre. Perché? Bella domanda. Forse perché, educato alla politica con le manifestazioni antimperialiste della guerra Usa nel Vietnam, non amavo (e non amo) questo passato colonialista del nostro Paese. “Italiani brava gente”?… Smettiamola! Poi proprio in quegli anni si scopriva che i nostri avieri avevano ripetutamente irrorato d’iprite (e altri gas) quelle popolazioni. Forse perché preferivo il padre ribelle, comunista e occupatore di terre irpine del dopoguerra a quello “civilizzatore”, fascista e a caccia del “posto al sole” nelle terre etiopi. Fra le mie scelte e quelle sue degli anni Cinquanta  coglievo maggiori elementi di continuità. O forse perché abbandonare una donna e un figlio, anche se si è costretti, non mi sembrava un motivo d’orgoglio. O forse perché la perdita della primogenitura rappresentava una ferita inconscia da rimuovere. O perché mio padre non era un grande narratore ed io ero un distratto e pessimo uditore…

La tormenta di Giuseppe Antolino è diventata un po’ la mia tormenta. In fondo, al di là dei difetti di costruzione, della qualità della scrittura, della forza o debolezza di una struttura narrativa, della sua plausibilità, necessità, urgenza, per un lettore un libro diventa importante se riesce ad aprirgli finestre, ad evidenziargli aspetti che gli erano sfuggiti, a scoprirgli terreni sconosciuti, rimossi o ignoti.

Come Filippo il mio compagno non mi avrà volontario nella Confraternita della Misericordia. Continuerò a professare la mia fede e le mie credenze. E, tuttavia, se letto con attenzione un libro regala sempre qualcosa. Per un po’ ci illude di entrare, se non dentro la prima vita di una persona, dentro quella ricostruita sulla pagina. E’ un sollievo temporaneo. Poi si scopre che si rimane prigionieri di se stessi. Ma, se per un attimo, una lampadina si accende nella tua prigione, c’è di che restare soddisfatti.

Giuseppe, in conclusione, nutre una buona speranza: è probabile che il nipotino Luca e il fratellino Marco (si chiama così?) rovistando tra le carte di famiglia, si troveranno tra le mani, La tormenta del nonno. Qualcosa ne faranno. E il messaggio più profondo –  del cercarsi il senso di una vita  – riusciranno sicuramente a decifrarlo.

 

13 Gennaio 2011

 

Written by Arminio

31 gennaio 2011 a 1:02 PM

Pubblicato su AUTORI

4 Risposte

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  1. donato, sono d’accordo con quel che dici sull’importanza di un libro… ma non sono riuscito a capire quale sei tu da bambino….antolino è in piedi sul gradino, o in seconda fila?

    liviobo

    1 febbraio 2011 at 3:54 PM

  2. Caro Livio, ho sbagliato. Non sono in seconda fila, ma in terza. E sono in piedi con Giuseppe sul gradino; in camicia bianca, lui appoggia la mano destra sulle mie spalle…Quando scrivevo la recensione, non avevo sotto gli occhi la foto! E la memoria, si vede, comincia a giocarmi qualche scherzo!…Ciao
    Donato

    Donato Salzarulo

    1 febbraio 2011 at 4:22 PM

  3. Bravo Salzarulo trovi sempore il modo per valorizzare gli altri…La tua recensione al libro fa venire voglia di leggere “La Tormenta”! Quindi è efficace
    Aspettiamo però una tua autorecensione, insomma un tuo libro!!!
    Saluti

    giulia

    1 febbraio 2011 at 10:13 PM

  4. “Una lingua è il luogo da cui si vede il mondo e in cui si tracciano i confini del nostro pensare e sentire”.
    Donato racconta in modo “abbondante” ,nel senso che ci regala pagine significative e ricche di particolari, anche in questo caso la sua recensione va molto in profondità,e mostra come si può leggere un testo srnza sorvolare sui significati, in questo è veramente un pedagogista.
    La sua “abbondanza” non stanca mai perchè i suoi scritti, secondo me, sono molto musicali, variano nei toni, nei timbri, nelle pause e nelle interruzioni improvvise, quando narra usa un linguaggio “naturale” direbbe Pascal cioè un linguaggio parlato, sembra proprio di sentirla questa voce che ci parla lentamente e con calme, senza frenesia, è uno stile che arricchisce.
    Complimenti ancora e un saluto

    angela

    2 febbraio 2011 at 8:21 am


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